Opere incompiute: anagrafe in dirittura d'arrivo


28 novembre 2012

Parte il censimento dei lavori mai conclusi
Scatta l'obbligo di anagrafe ma le sanzioni non ci sono
Sarà il primo censimento ufficiale delle opere incompiute, ma la fotografia rischia di riuscire sfocata. Il regolamento che istituisce la banca dati delle opere incompiute, prevista per la prima volta quasi un anno fa dal decreto legge 201/2021, è alle battute finali: il 25 ottobre ha ricevuto il parere positivo della Conferenza unificata Stato-città-Regioni e ora è al Consiglio di Stato per il parere finale prima di trovare la strada della «Gazzetta».
Il meccanismo che dovrà alimentare la banca dati e fornire informazioni aggiornate (peraltro solo una volta l'anno, il 30 giugno) prevede l'intensa collaborazione di tutte le amministrazioni pubbliche (statali e locali) che sanno di avere «in dote» un'opera non finita. L'«elenco-anagrafe nazionale delle opere pubbliche incompiute» è diviso in due sezioni, che viaggiano su binari paralleli: da un lato le infrastrutture nazionali rimaste a metà, tutte di competenza del ministero guidato da Corrado Passera, che ha anche l'onere di scovarle e renderle note, e le opere locali (di Comuni, Province e Regioni) che vanno segnalate agli Osservatori regionali dei contratti pubblici (se esistono) oppure agli uffici indicati dalle singole Regioni. L'obiettivo finale è ben indicato nell'articolo 4 della bozza di decreto messo a punto dal viceministro, Mario Ciaccia: arrivare a costruire una graduatoria di «merito» tra chi è a un passo dal salvataggio e chi è destinato all'oblio e, si spera, alla demolizione perchè antieconomico da recuperare. A questo scopo il decreto prima circoscrive la categoria delle «incompiute» (vi rientra però ogni opera «non rispondente a tutti i requisiti del capitolato» e per qualsiasi motivo «non fruibile dalla comunità») e poi indica il criterio guida per il recupero che, ovviamente, è lo stato di avanzamento dei lavori e il possibile utilizzo «anche con destinazioni d'uso alternative». Il decreto però non specifica chi debba decidere sulla sorte finale dell'opera e con quali fondi.
La riuscita dell'operazione è lasciata, appunto, alla piena collaborazione delle amministrazioni coinvolte: non ci sono sanzioni a intimorire eventuali funzionari pubblici inadempienti. E la caccia all'incompiuta deve essere fatta «con le risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente» ovvero senza nuovi fondi. Con obblighi non indifferenti: tutte le amministrazioni che hanno un'infrastruttura in sospeso devono innanzitutto «autodenunciarsi»
entro il 31 marzo di ogni anno. Poi fornire una serie dettagliata di informazioni: dal Codice identificativo dell'opera, se presente (Cup), alla descrizione, alla localizzazione all'insieme dei fondi già spesi e di quelli ancora rimasti a disposizione, fino ai motivi che hanno determinato il blocco o l'abbandono della struttura e ai suggerimenti per il riutilizzo.
E per questa prima volta, l'operazione va conclusa entro 90 giorni dall'arrivo in «Gazzetta» del decreto (in origine fissato per il 28 marzo). Insomma l'avvio della prima anagrafe delle infrastrutture è un'operazione di grande trasparenza che rischia, però, di risolversi in un gravoso onere per le autonomie locali. Comuni in testa, come ha sottolineato l'Anci, che prima di dare il proprio assenso al Dm ha chiesto di attingere alla grande mole di dati che gli enti già oggi devono inviare alle altre amministrazioni (ad esempio l'osservatorio degli appalti gestito dall'Autorità dei contratti pubblici) e di metterle finalmente in rete attraverso un dialogo tra banche dati. «In modo - si legge nel parere Anci - da non gravare ulteriormente sugli uffici comunali, tenuti a fornire più volte le medesime informazioni a soggetti diversi».